CASA DD
Dialogo con la storia
Situato al confine tra le province di Ancona e Macerata, a margine di una delle campagne pedemontane tipiche delle nostre zone pre-appenniniche ed in cui la pietra arenaria è stata il materiale da costruzione fino all’avvento del calcestruzzo, l’edificio mostrava espressamente i segni che gli agenti atmosferici ed ambientali, durante secoli di storia, avevano lasciato pesantemente nel loro passaggio .
Probabilmente risalente alla fine del XVII secolo, (è stata ritrovata una pianella sotto al manto di copertura recante la data 1674 scritta a carbone) e comunque già presente nella mappa del catasto gregoriano redatta negli anni immediatamente successivi al 1830, è probabilmente ciò che rimane di un antico palazzetto di campagna di dimensioni pressoché doppie rispetto le attuali, dove, durante la prima e seconda guerra mondiale, stazionavano i doganieri a tutela e controllo dei pozzetti di acqua salata poco distanti dall’edificio.
Proprio tale presenza di salinità nell’ambiente ha probabilmente contribuito al forte deterioramento dei paramenti murari esterni vistosamente corrosi e che in alcune porzioni erano stati compromessi per circa un quarto del loro spessore.
Arrivato a noi in condizioni statiche precarie, è quasi completamente crollato tra gli anni 2007- 2008 rendendone praticamente impossibile il restauro conservativo.
L’onere di dover cancellare per sempre ciò che la storia aveva conservato per oltre tre secoli ha pesato non poco sulle decisioni e sulla filosofia dell’intervento fino alla decisione che probabilmente poteva ancora sopravvivere almeno una parte di ciò che restava di originale.
L’arco d’ingresso e lo sperone al suo fianco che denunciava il proseguimento del paramento originario oltre l’attuale dimensione potevano arricchire notevolmente il risultato finale rimandando ulteriormente la morte dell’edificio e richiamando al tempo stesso quel romanticismo Ruskiniano di cui oggi l’architettura ha ancora molto bisogno.
Analogamente all’intervento che Raffaele Stern fece sul Colosseo dopo il terremoto del 1806, in cui il nuovo sperone in mattoni sosteneva ed immobilizzava, come in una istantanea, l’edificio antico nelle sue condizioni di instabilità nel momento subito precedente l’operazione di restauro, qui è il nuovo edificio che regge lo sperone antico e lo fotografa nella sua condizione originaria contemplandone il degrado materico e strutturale previa messa in sicurezza della sua staticità attraverso opere di consolidamento.
Ne deriva un risultato affascinante in cui ogni sua parte può essere letta senza generare false interpretazioni, in cui nuovo ed antico dialogano biunivocamente nel racconto di ciò che è stato e ciò che vuole essere.
Sono chiaramente leggibili la stereometria del volume originario, la sua incompiutezza dimensionale nell’aver lasciato sperone e tracce di muratura a terra della parte mancante, la contrapposizione delle nuove parti (piscina, terrazza e veranda) nella loro conformazione planimetrica, mentre l’armonizzazione cromatica e materica del nuovo all’antico risponde all’esigenza e alla volontà di realizzare un unico organismo architettonico.
Anche internamente le antiche tecnologie costruttive sono state riprese nella rigenerazione delle parti dell’edificio. Muratura portante, solaio in legno e laterizio, copertura su capriate, arcarecci, travetti e pianelle, compongono il nuovo spazio che distributivamente soddisfa la nuova destinazione d’uso ed in cui attraversamenti prospettici, esplosioni volumetriche inattese e scelte nate dallo sviluppo delle sezioni, arricchiscono la qualità dello spazio.
L’impiego infine di finestre “tutto vetro” con telaio a scomparsa ha permesso di amplificare le già grandi dimensioni delle bucature originarie accentuando lo spessore muraio dell’involucro lapideo e mettendo in intimo dialogo gli ambienti interni con le suggestioni esterne in cui enormi querce sebrano anch’esse raccontare secoli di storia vissuta.
L’approccio critico degli interventi sul patrimonio esistente con l’inserzione di nuovi elementi, l’uso sapiente del verde, la valorizzazione del “rudere” e dell’originalità, può e deve essere il mezzo attraverso il quale raggiungere l’alta qualità del risultato finale sia sul piano espressivo che su quello storico-testimoniale.
Considerando allora questo intervento come un tassello dell’operazione di recupero del paesaggio storico marchigiano diffuso, soprattutto quello agrario su cui infinite sovrapposizioni di vincoli cercano di preservarne bellezza ed originalità, si ritiene utile riportare un principio fondamentarle della teoria del restauro secondo Cesare Brandi e su cui si invita a riflettere quale sia invece oggi la direzione verso cui la legislazione e le competenze tecniche operanti nel settore ci stanno portando:
“il restauro dovrà, in caso di frammentarietà o lacunosità, mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo.”
A tal proposito è forse importante porsi la domanda se sia lecito o meno l’obbligo della fedele ricostruzione in caso di demolizione o crollo, l’obbligo dell’uso di schemi tipologico-volumetrici codificati e schematizzati dai regolamenti edilizi fino all’obbligo di inserimento di pre-determinati dettagli costruttivi architettonici, escludendo d’ufficio alcune soluzioni che invece potrebbero, in maniera netta ed inconfondibile, denunciare lo spazio temporale dell’intervento e che rientrando anch’esse nel riconoscimento di “opera d’arte” diverrebbero materia di storia e testimonianza non dubbia.
Committente: privato
Progetto architettonico: Arch. Giorgio Balestra
Progetto strutturale: Ing. Marco Cimarelli
Impresa di costruzione: Impresa Luigi Gurini (Monterado- Trecastelli AN)
progettazione: 2005
esecuzione lavori: 2006-2010